La mia tesi di dottorato, La fine nei testi letterari. Chiuse, strategie conclusive e forme del compiuto, discussa presso l'Università di Bergamo nell'a.a. 2000-01.
Con la sintetica dicitura di Straordinarie avventure si designa qui il primo romanzo di Daniel Defoe (1660-1731), The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, uscito nell'aprile del 1719;
con Ulteriori avventure, la sua continuazione, The Farther Adventures of Robinson Crusoe, che l'autore, sull'onda dell'enorme successo ottenuto, si affrettò a pubblicare nell'agosto dello stesso anno 1719 (mentre, naturalmente, il Robinson Crusoe sarà il dittico).
«Le parole [...] non presentano la sola idea dell'oggetto significato, ma, quando più quando meno, immagini accessorie. Ed è pregio sommo della lingua l'aver di queste parole. Le voci scientifiche presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto, e perciò si chiamano termini perché determinano e definiscono la cosa da tutte e parti» (cfr. Zibaldone 109-110 in G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Milano, Garzanti, 1991, vol. I, p. 123).
Per la versione italiana, l'edizione di riferimento, cui d'ora in poi si rinvia col semplice numero di pagina, è D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe. Seguite da Le ulteriori avventure e Serie riflessioni, a cura di G. Sertoli, Torino, Einaudi, 1998 (traduzioni di A. Meo e G. Sertoli); edizione che si segnala anche per l'accurata, ma al tempo stesso agile, Bibliografia finale.
Si è cercata una definizione più icastica perché, in narratologia, l'espressione finale aperto conosce un uso tutt'altro che univoco: in particolare, si suole parlare di finale aperto sia di fronte ad un finale che - come questo - prospetta un seguito (un nuovo inizio) dopo che la vicenda principale comunque è approdata ad uno scioglimento, sia in presenza di un finale che lascia in sospeso la vicenda principale o non risolve il meccanismo narrativo. Ovviamente si tratta di due tipologie diversissime che non vanno confuse: da una parte c'è una aggiunta, una riapertura dopo la conclusione, dall'altra un'assenza di conclusione. Quanto alla nozione di epilogo (dal greco εcombining comma aboveπιλεcombining reversed comma aboveγω «aggiungo, dico ancora»), essa rende conto dello scarto logico-temporale che può esserci tra quella che viene avvertita come la conclusione, il momento risolutivo della narrazione e la sua eventuale coda che, nel caso dell'epilogo narrativo più tradizionale, tende a coincidere con poche essenziali informazioni sulle sorti dei vari personaggi. L'epilogo occupa dunque lo spazio compreso tra lo scioglimento o conclusione della storia e la fine materiale del testo (più specificamente, sull'epilogo dei romanzi, v. M. Torgovnick, Closure in the Novel, Princeton, Princeton University Press, 1981, pp. 11-13;
G. Larroux, Le mot de la fin, Paris, Nathan, 1995, pp. 153-158;
e M. Kunz, El final de la novela, Madrid, Gredos, 1997, pp. 64-90).
In questo finale dalle movenze così «liquidatorie», fa eccezione il racconto, un po' prolisso, del passaggio attraverso i Pirenei infestati da branchi di lupi (pp. 266-277); ma si tratta di un episodio probabimente interpolato da Defoe per completare il numero di pagine pattuito coll'editore (cfr. la nota a p. 266), che certo ha qualcosa di posticcio.
Prigionia-soggiorno: uso questa definizione ossimorica perché Robinson, man mano che migliora le proprie condizioni di vita, e col maturare di una fede religiosa più profonda, tende a leggere in chiave provvidenziale anche le proprie sventure, e a considerare l'isola non più solo come una condanna alla segregazione, ma anche come un luogo dove la vita può comunque essere piacevole e gratificante.
Nelle Straordinarie avventure, a parte l'accenno al proprio matrimonio, Robinson menzionerà le donne solo nel finale, trattandole alla stregua delle altre cose utili che invia agli inglesi rimasti nell'isola: «comprai un battello che mandai nell'isola con altre persone e, oltre ad altte provviste, vi imbarcai sette donne, che giudicai adatte a servire o a fare da mogli a quelli che volessero prenderle [...] Dal Brasile gli mandai anche cinque mucche [...]» p. 280.
Logica d'altra parte elementare: Robinson desidera sempre l'altrove; così, da un lato, nelle situazioni di stasi o stabilità, egli smania per partire e cambiare, dall'altro, nel corso delle proprie sventure, spesso si rimprovera di aver rinunciato al quieto vivere, e desidera tornare e fermarsi; e così si dà da fare ora in un senso ora nell'altro.
Che la felicità coniugale possa precludere la tensione narrativa, l'ha detto chiaramente Balzac in Splendori e miserie delle cortigiane: «La felicità non ha storia e gli scrittori di tutto il mondo l'hanno capito così bene che la frase: "furono felici" termina tutte le storie d'amore» (cfr. H. de Balzac, Splendori e miserie delle cortigiane, Torino, Einaudi, 1991, p. 75);
e traspare anche, implicitamente, dal sentenzioso incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo» (cfr. L. Tolstoj, Anna Karenina, Torino, Einaudi, 1945).
A questo proposito si può parlare di sottolineature tematiche della fine, o di metaclausolarità. Il procedimento, oltre che intutitivo, è ben noto: ne hanno parlato B. Herrnstein Smith, Poetic Closure. A study of how Poems End, Chicago, Chicago University Press, 1968, pp. 172-182;
V. Coletti, Dall'inizio alla fine [1980] in Id., Italiano d'autore, Genova, Marietti, 1989, pp. 136-142;
e M. Kunz, El final de la novela, cit., pp. 163-186;
ma è Hamon che ne ha dato, a mio avviso, la migliore formulazione teorica: «Le texte peut mettre en relief sa clausule en laissant à l'énoncé proprement dit le soin de l'assumer par une thématique particulière, celle précisement de la fin, et de toutes ses variantes [...] C'est ce que Barbara Herrnstein Smith appelle l'allusion clausurale. On a là affaire à une sorte de mimétisme textuel, de commentaire métalinguistique implicite du texte sur lui même, l'énoncé-soulignant sa frontière ultime par des métaphores qui renvoient indirectement à sa cessation même» (cfr. Ph. Hamon, Clausules, in «Poé tique», 24, 1975, p. 516).
V. in particolare p. 260: «Questa dichiarazione, regolarmente convalidata da un notaio con annessa procura, mi disse di mandarla [...] a un mercante di sua conoscenza [...]. Nessuna operazione fu mai condotta con più onestà di quella fatta in base a questa procura [...]»; e pp. 278-279 «decisi di vendere la mia piantagione [...] firmai il contratto di vendita e lo mandai al mio vecchio amico, il quale mi fece rimessa di trentaduemilaottocento pezzi da otto sotto forma di lettere di cambio per la mia proprietà [...]».
Cfr. I. Watt, Le origini del romanzo borghese [1957], Milano, Bompiani, 1976, pp. 59-60.
Sull'ambiguità dell'immagine dello scioglimento di un intreccio narrativo, immagine introdotta da Aristotele nella Poetica quando parla di λύσις, e oggi lessicalizzata in più lingue (cfr. ad es. il fr. dénouement, l'ingl. unravelling, lo sp. desenlace e il ted. Auflösung), v. J. H. Miller, The problematic of Ending in Narrative, in «Nineteenth-century fiction», vol. 33, giugno 1978, pp. 3-8.
In proposito, v. F. Kermode, Il senso della fine [1967], Milano, Rizzoli, 1972, pp. 62-67; il quale inoltre sostiene che gli uomini, proprio perché si trovano nel mezzo, proprio perché vivono e muoiono in medias res, hanno un naturale bisogno di tempi e finzioni dotati di un inizio e di una fine e quindi di un senso (kairoi appunto); sicché vedere la fine di una vicenda (nei libri, addirittura soppesarla) mentre noi perduriamo, è sicuramente uno dei piaceri primordiali delle finzioni artistiche (p. 37: «il fatto che posseggano una fine è uno dei maggiori motivi di fascino dei libri»);
perché, colle parole di Blanchot, «la narration impose la sécurité d'une histoire bien circonscrite qui, ayant eu un commencement, va avec certitude vers le bonheur d'une fin, fût-elle malheureuse» (corsivo mio; cfr. M. Blanchot, Le livre à venir [1959], Paris, Gallimard, 1986, p. 280).
Si cita da D. Defoe, Robinson Crusoe, London, Dent, 1966, p. 223. Traduzione (p. 280): «Ma tutte queste cose, col racconto dell'invasione di trecento càribi che rovinarono le piantagioni e come gli abitanti dell'isola combatterono due volte contro tutti quei nemici e furono dapprima sconfitti e tre uccisi, finché, avendo una tempesta distrutto le canoe dei loro nemici, uccisero o fecero morire di fame quasi tutti gli altri, e rinnovarono e riguadagnarono il possesso delle loro piantagioni e continuarono a vivere sull'isola - tutti questi fatti, e i particolari di altre mie nuove e sorprendenti avventure durante un periodo di altri dieci anni, potrò forse raccontare in avvenire».
Con un effetto che, vagamente, può ricordare le detonazioni finali di cui ha parlato Spitzer analizzando i ben più complessi processi di sospensione e soluzione sintattica clausolare dei periodi proustiani (v. L. Spitzer, Sullo stile di Proust, in Id., Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese, Torino, Einaudi, 1959, in particolare le pp. 232-236).
Cfr. D. Defoe, Robinson Crusoe, cit., p. 427. Traduzione (pp. 540-1): «Per concludere, dopo un soggiorno di quasi quattro mesi ad Amburgo, [...] arrivai a Londra il 10 gennaio 1705, dopo esser stato via dall'Inghilterra dieci anni e nove mesi. E qui, col proposito di non procurarmi altre tribolazioni, mi preparo a un viaggio più lungo di quelli che ho descritto, essendo vissuto settantadue anni di una vita infinitamente varia, e avendo imparato abbastanza per apprezzare il valore del riposo e la grazia di finire i miei giorni in pace».
È questo un meccanismo di chiusura efficace e « naturale», il cui effetto di convergenza, come ha osservato Genette, è giocato sul fatto che «la stessa durata della storia diminuisce progressivamente la distanza dal momento della narrazione» (cfr. G. Genette, Figure III [1972], Torino, Einaudi, 1976, p. 268).
In proposito, si può vedere G. Genette, Verosimiglianza e motivazione, in Id., Figure II [1969], Einaudi, Torino, 1972, pp. 43-70; e si possono ricordare le riflessioni di Sartre, il quale sostiene che la differenza sostanziale tra vita vissuta e finzione narrativa è proprio questa: la vita vissuta è opaca e il suo svolgimento è dominato dalla contingenza, la vita raccontata invece è assoggettata ad un fine, ad un punto di vista retrospettivo che impone agli eventi una gerarchia, un percorso, che nega insomma la contingenza.
Ecco dunque, citati per esteso (in traduzione), questi tre titoli-sommario che anticipano anche l'esito della storia: 1) La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York, marinaio che visse ventotto anni tutto solo su un'isola disabitata presso le coste dell'America, vicino alla foce del fiume Orinoco; essendo stato gettato sulla spiaggia da un naufragio nel quale perirono tutti eccetto lui; col racconto di come fu alla fine liberato altrettanto straordinariamente da pirati. Scritta da lui medesimo; 2) Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders, la quale nacque a New Gate, e nel corso d'una vita di continui mutamenti, per sessant'anni, oltre l'infanzia, fu per dodici anni prostituta, cinque volte moglie (una delle quali di suo fratello), dodici anni ladra, otto anni deportata in Virginia, e infine divenne ricca, visse onesta e morì pentita. Trascritte dal suo memorandum; 3) Storie della notevolissima vita e straordinarie avventure del molto onorevole colonnello Jacque, comunemente chiamato colonnello Jack, che nacque gentiluomo, fu messo apprendista presso un borsaiolo, prosperò ventisei anni come ladro, e fu poi rapito nella Virginia; tornò mercante, si sposò cinque volte con quattro sgualdrine; andò alle guerre, si comportò valorosamente, fu promosso, venne nominato colonnello di un reggimento, rimpatriò, ritornato in Inghilterra, seguì le fortune del cavaliere di San Giorgio, fu preso alla ribellione di Preston; venne graziato dal defunto re, si trova ora alla testa del suo reggimento al servizio della Zarina combattendo contro i Turchi, completando una vita di meraviglie, e ha in animo di morire generale.
Su cui si può vedere C. Ginzburg, Ecce. Sulle radici scritturali dell'immagine di culto cristiana, in Id., Occhiacci di legno, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 100-117.
Si veda in particolare il Vangelo di Giovanni 19, 28-35: «A questo punto Gesù, sapendo che tutto era compiuto, disse: "Ho sete". Così realizzò una profezia della Bibbia. C'era lì un'anfora piena di aceto: bagnarono una spugna, la misero in cima a un ramo di issòpo e l'accostarono alla sua bocca. Gesù prese l'aceto e poi disse: "È compiuto". Abbassò il capo e morì. Era la vigilia della festa: le autorità ebraiche non volevano che i corpi rimanessero in croce durante il giorno festivo, perché la Pasqua era una festa grande. Perciò chiesero a Pilato di far spezzare le gambe ai condannati e far togliere di lì i loro cadaveri. I soldati andarono a spezzare le gambe ai due che erano stati crocifissi insieme a Gesù. Poi si avvicinarono a Gesù e videro che era già morto. Allora non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli trafisse il fianco colla lancia. Subito dalla ferita uscì sangue con acqua. Colui che ha visto ne è testimone, e la sua testimonianza è vera. Egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Così si avverò la parola della Bibbia che dice: "Le sue ossa non saranno spezzate", e: "Guarderanno colui che hanno trafitto"» (corsivi miei).
Cfr. V. Šklovskij, Teoria della prosa [1925], Torino, Einaudi, 1976, p. 73.
A questo primo livello, gli esempi di gradatio non mancano neanche nelle Ulteriori avventure dove, in particolare, constatiamo come il racconto di una nuova vicissitudine spesso inizi proprio focalizzando vieppiù una percezione dapprima incerta; così, ad es. (a p. 423), qualcosa di molto nero formicolante sul mare liscio è il primo palesarsi di una flotta di canoe di selvaggi cannibali; e, analogamente, più avanti (a p. 506), è il rapido avanzare di una nuvola di polvere ad annunciare l'imminente incontro con un'orda di tartari.
Difficile comunque, viste le incongruenze del testo, ricostruire con esattezza la cronologia di questa sequenza (in proposito v. la nota a p. 171).
Significativa a riguardo la pagina di diario in cui Robinson rievoca la propria percezione del terremoto: anche nel corso del cataclisma la principale preoccupazione di Robinson sembra essere stata quella di capire e di accordare gli effetti colle cause: p. 76 «[...] mentre ero nel recinto [...] fui grandemente spaventato da un fatto davvero molto terribile, che mi fece sbalordire; perché tutto a un tratto vidi venir giù la terra a pezzi dal soffitto della grotta [...] Fui preso da un grande spavento, ma ero lontano dal pensare quale fosse la vera causa; [...] avevo appena posto piede sul terreno solido, quando capii chiaramente che era un terribile terremoto; perché il terreno sul quale stavo tremò tre volte con intervalli di circa otto minuti [...] Notai anche che il mare era stato messo in una violenta agitazione, anzi credo che le scosse fossero più forti sotto l'acqua che sull'isola». D'altra parte, che l'argomentazione rigorosa sia un ideale perseguito da Robinson, traspare anche dalla sua ammirazione (sin eccessiva) per il ragionamento sillogistico del giudice cinese, che pure lo ha condannato: p. 504 «[...] quando tornammo al villaggio, l'uomo pretese il prezzo del cammello; io contestai la sua richiesta, che fu portata davanti al giudice cinese [...] il giudice agì con moltissima prudenza e imparzialità; e dopo aver udito tutte e due le parti, domandò gravemente al cinese, che era venuto con me a comperare il cammello, al servizio di chi fosse. - Non sono un servitore, - rispose quello, - ma sono andato collo straniero. - A richiesta di chi? - domandò il giudice. - A richiesta dello straniero, - rispose l'uomo. - Allora, - rispose il giudice, - tu eri al servizio dello straniero per il momento, e siccome il cammello fu consegnato al suo servitore, è come se fosse stato consegnato a lui stesso, ed egli deve pagarlo. Confesso che la cosa era così chiara che non ebbi una parola da dire; ma osservando ammirato come il verdetto fosse stato raggiunto con un'argomentazione così giusta, dopo un'impostazione tanto accurata della causa, pagai volentieri il cammello e mandai a prenderne un altro».
Forse è proprio in virtù di questa scansione logico-argomentativa del racconto che Le straordinarie avventure hanno avuto grande fortuna didattica, come libro per ragazzi.
Una concezione che d'altra parte lo stesso autore aveva propagandato in prima persona in alcuni suoi scritti meno noti; Ian Watt ricorda, in particolare, come Defoe, in un articolo del 1706, The Case of Protestant Dissenters in Carolina, avesse addirittura sostenuto, «con ottusítà sofistica», confondendo valori religiosi e materiali, che il perseguimento dell'utilità economica era un modo di essere cristiani: «L'utilità, essendo il maggior piacere e giustamente considerato da tutti gli uomini di senno il fine più vero e più nobile della vita, è nel perseguirla che gli uomini si avvicinano di più al carattere del nostra Salvatore che si occupò di far cose utili e buone» (cfr. I. Watt, Le origini del romanzo borghese, cit., p. 69).
Cfr. V. Woolf, Robinson Crusoe, in Common Reader, London, The Hogarth Press, 1932, p. 54 [articolo pubblicato già nel 1925, e successivamente rivisto per questa seconda edizione del 1932]. Traduzione: «Non ci sono né tramonti né albe; non c'è né solitudine né anima. Al contrario, c'è solo un grosso vaso di terracotta che sta lì a fissarci».
Cfr. G. Sertoli, I due Robinson, in D. Defoe, Le avventure di Robinson Crusoe, cit., pp. V-XL.
Tale dissidio verrà invece rimosso nella tendenziosa autointerpretazione delle precedenti Avventure che Robinson fornisce nella Prefazione delle Serie riflessioni, là dove appunto egli, dimenticando l'istanza economico-progressista che pure tanta parte aveva avuto nel dittico romanzesco, sottolinea esclusivamente il fine di «edificazione morale e religiosa» sotteso alla propria «parabola» (cfr. p. 554).
Quando Robinson propone al vecchio principe di evadere dalla Siberia, e per convincerlo non esita a presentarsi come un messaggero della Provvidenza (p. 532 «spero che siate pienamente persuaso che la vostra non sia resistenza al richiamo del Cielo»), questi risponde che se si fosse davvero trattato di un richiamo del Cielo, allora «quello stesso potere mi avrebbe indotto ad ascoltarlo; ma spero, anzi sono pienamente convinto, che è un impulso del Cielo che mi porta a declinare l'offerta». L'io narrante, di fronte a questa facile argomentazione, non ha nulla da obiettare; eppure essa, come ha evidenziato Sertoli (cfr. p. XXXIII), potrebbe giustificare anche il «peccato originale» dell'io narrato, e indurre a considerare come una vocazione la sua irresistibile smania di avventure. Ossia, qui il testo sembra implicitamente smentire la verità dell'io narrante denunciando la sua tendenza a coartare il senso degli eventi narrati.
L'ha suggerito, in altri termini, anche Franco Moretti, il quale, constatando la scarsa importanza del lavoro e della sfera economica nel più classico dei Bildungsromane, il Meister di Goethe, sottolinea come il capitalismo non possa produrre Bildung («il "viaggio" del mercante non potrà mai concludersi in quei luoghi ideali - la tenuta della Torre, la Pemberley di Orgoglio e pregiudizio - dove tutto è "benessere". Egli non potrà mai provare la felicità dell'"appartenere" a un luogo determinato. E come non potrà mai fermarsi nello spazio, così la sua vicenda non potrà mai "concludersi" nel tempo»), e cita appunto le Straordinarie e le Ulteriori avventure di Robinson Crusoe come caso di percorso senza reali conclusioni, in cui «il problema di come porre fine al romanzo resta aperto» (cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, pp. 28-29).